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Quella di Alexander Woollcott (1887-1943) è una figura di poligrafo molto novecentesca, molto americana, dalla cui attività solo la narrativa restò curiosamente esclusa: fu infatti cronista, critico drammatico autorevole e temuto per il New York Times, drammaturgo a sua volta, memorialista, scrittore di viaggio, critico di costume, curatore di classici, personalità radiofonica e all’occasione perfino attore, sulle scene e al cinema. Firma classica del settimanale New Yorker, quell’istituzione secolare della cultura liberal statunitense per il quale creò la rubrica “Shouts & Murmurs”, verso la fine degli anni Trenta il suo profilo pubblico era tale da meritarsi perfino una caricatura in due disegni animati della Warner.
Il nome di Woollcott oggi è associato soprattutto all’Algonquin Round Table, la ribalda accolita di intellettuali (vicious circle), teatranti e bon vivants che soleva riunirsi all’Hotel Algonquin di New York dal 1919 al 1929 circa e della quale erano parte personaggi quali Dorothy Parker, Ring Lardner, Noël Coward, Herman J. Mankiewicz, Harpo Marx, Robert Benchley, George S. Kaufman: nomi che oggi risuonano tutti assai più di quello di Woollcott, che ne risulta come illuminato di luce riflessa (Woollcott compare tuttavia, interpretato dall’attore Tom McGowan, in un film che nel 1994 il regista americano Alan Rudolph dedicò al gruppo, Mrs Parker and the Vicious Circle, incentrato sulla figura di Dorothy Parker).
Se il declino della sua fama è comprensibile, non è per ciò giustificato: Woollcott fu un testimone d’eccezione, e personale, del suo tempo, del suo ambiente e soprattutto della sua amatissima città adottiva; secondo molte testimonianze, fu anche una personalità in ogni senso larger than life, e basti ad accertarlo il fatto che George S. Kaufman si ispirò a lui per il colorito personaggio di Sheridan Whiteside nella commedia, poi un film con Bette Davis, The Man Who Came to Dinner (“Il signore resta a pranzo”, 1942) e addirittura che Rex Stout lo prese a modello per il formidabile Nero Wolfe.
Il fascino che Woollcott provò sempre per New York si dovette con ogni probabilità anche alla sua condizione di provinciale inurbato: era nato infatti a Colt Neck nel New Jersey, dove aveva trascorso infanzia e adolescenza nell’enorme e fatiscente casa avita descritta in “Il medico di zia Mary”, qui raccolto. Le precarie condizioni economiche della famiglia, pregiudicate dall’inaffidabilità del padre, un inglese sovente disoccupato e poco presente, non impedirono al giovane Alexander di diventare un lettore avido, con una preferenza spiccata per Charles Dickens che si troverà adombrata anche in certe, rare, venature sentimentali della sua attività pubblicistica.
Studente di valore, si laureò nel 1909 all’Hamilton College di New York, dove fondò una filodrammatica, indizio dell’altra sua precoce vocazione, e diresse il giornale studentesco. Subito dopo la laurea entrò come reporter al New York Times, di cui divenne nel 1914 critico teatrale, ruolo che sostenne fino al 1922, distinguendosi fra l’altro per un’avversione quasi viscerale e non dissimulata per l’astro nascente della drammaturgia statunitense, Eugene O’Neill (se ne discute ampiamente nel suo “Note di sala: iI lutto si addice ad Elettra”).
Nell’aprile del 1917 gli Stati Uniti entrarono nella Prima guerra mondiale, a seguito di un estenuante dibattito interno fra le parti pro- e contro-Intesa. Questa svolta nella politica estera segnò per il Paese una sorta di perdita dell’innocenza e di assunzione di responsabilità e fu una svolta cruciale anche nella carriera e nella vita di Woollcott, come di molti altri. Fervente interventista come si addiceva a un cosmopolita nell’animo, Woollcott si arruolò volontario e fu distaccato a Parigi con il grado di sergente della sezione d’intelligence del corpo di spedizione americano (il periodo bellico fa da sfondo a due articoli della raccolta: “Il bosco sacro” e “Padre Duffy”).
Nella redazione di Stars and Stripes, il giornale destinato alle truppe, Woollcott fece la conoscenza di Harold Ross, che nel 1925 avrebbe fondato il New Yorker. Dopo la guerra riprese il suo servizio al New York Times, per trasferirsi di lì al New York Herald e infine, nel 1923, al World, dove rimase fino al 1928. Nel 1929 ebbe inizio anche la sua fortunata carriera di personalità radiofonica presso la CBS di New York; alcune sue trasmissioni sono ascoltabili su Youtube. Proprio durante un programma del 23 gennaio 1943 fu colto da un malore, ma non volle interrompere la trasmissione; morì di emorragia cerebrale poche ore dopo, appena cinquantaseienne.
Lo stile di Woollcott, contesto di arguzie e di aforismi rimasti proverbiali, è brillante e disinvolto e tutto della sua epoca: d’impianto sintattico elaborato, a tratti prezioso, che si è cercato di mantenere nella versione italiana, lessicalmente prelibato e a momenti eccentrico, ha dettato le linee-guida per una certa maniera del New Yorker e riflette come poche altre espressioni letterarie dell’epoca l’ambiente intellettuale, letterario e teatrale dell’epoca: la New York dei teatri e degli speakeasies, dei grandi giornali, dei socialites e delle bische, provvedendo un singolare contraltare e un complemento alle figure di giornalisti un po’ cialtroni e lowlife dei coevi racconti di Ring Lardner (un altro membro del vicious circle dell’Algonquin) e di Ben Hecht.
Un altro tratto che consuona con noi lettori moderni, ed è un tratto tipicamente americano, è poi nel gusto di Woolcott, e nella conseguente scelta dei soggetti dei suoi réportage che mostrano come la coscienza della porosità dei confini fra cultura “alta” e cultura “pop” non sia una sensibilità esclusiva di anni recenti.
Figura tipica di letterato che ha messo il talento nell’opera e il genio nella vita, Woollcott ci ha forse voluto dire qualcosa di sé nel titolo che scelse per il suo libro più famoso e grande best seller, While Rome Burns, “Mentre Roma Brucia”, che la raccolta di Sagoma Editore antologizza. Nel pieno del clamore, della vitalità dionisiaca di quella che Fitzgerald chiamò “l’età del jazz”, Woollcott intuisce un disastro incombente, un senso di crepuscolo di una civiltà che pure si vuole appena cominciata; quasi una nostalgia preventiva che non di rado traspare dalla sua retorica paradossale, dal suo stile ornato e a volte capzioso. Per questo, gli articoli raccolti in Mentre Roma brucia si propongono come una vera time capsule, capsula di un momento chiave della vita, non solo americana, del Ventesimo secolo.
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