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Nino Manfredi è stata una delle colonne della commedia all’italiana: la sua recitazione misurata, la comicità che alternava battute ad una “fisicità” maggiore rispetto agli altri attori della sua generazione, la grinta e le sue capacità autoriali, lo hanno visto interpretare ruoli sempre in bilico fra satira e dramma. Pochi come lui sono stati capaci a raccontare i pregi e difetti dell’uomo comune, a volte con una ribellione interna che, strozzata, sfociava in malinconia (C’eravamo tanto amati, Pane e cioccolata). Manfredi è stato il pover’uomo, il disilluso, lo sfortunato, quello che voleva capire perché in Italia le cose andavano in un certo modo. Le sue abilità trasformistiche sono state senza eguali, regalando al pubblico ruoli esilaranti, a volte disturbanti (Brutti, sporchi e cattivi) quanto virtuosistici (Questa volta parliamo di uomini, Vedo nudo), ma Nino Manfredi è stato forse l’unico dei grandi attori italiani a raccontare in modo autobiografico problemi di fede religiosa (Per grazia ricevuta), e aver interpretato ruoli storici per raccontare l’Italia in piena guerra civile (Nell’anno del Signore, In nome del Papa Re).
La sua bravura è cresciuta attraverso il dolore della vita, durante la quale ha sofferto per motivi di salute quando era un ragazzo, e, nella tradizione chapliniana, ne uscì consapevole di poter far ridere in ogni circostanza. Era un artista meticoloso, pignolo, da bravo figlio di contadini ha saputo gestire la sua carriera con intelligenza e senza sprechi: diplomato all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico nel dopoguerra, affrontò una gavetta lunga un decennio, fra ruoli cinematografici senza rilievo e una lunga frequentazione dei teatri stabili di Roma e Milano, poi l’ingresso nel varietà, il lancio nella televisione con Canzonissima, la consacrazione con Rugantino a teatro che lo portò fino a Broadway, lo sbarco nel cinema importante, fra pezzi grossi già avviati come Ugo Tognazzi e Alberto Sordi e per questo giunto tardi, ma in tempo per proporsi come una alternativa nella commedia all’italiana sempre meno ridanciana e più cupa.
Ha lavorato con grandi registi come Ettore Scola, Luigi Magni, Dino Risi, ma lui stesso si è diretto in tre film diversi, soprattutto il primo, un azzardato cortometraggio muto, omaggio ai suoi amati Chaplin e Keaton. In vecchiaia, mentre arrivavano nuovi comici più giovani, si è dichiarato deluso dal cinema italiano e si è rifugiato come sfida nella televisione e in teatro, con notevole successo, fino alla morte, avvenuta nel 2004. Quando era malato di tubercolosi gli era stata data una prospettiva di vita lunga al massimo cinque anni: Nino se n’è andato a 83, mettendosi sempre in gioco al servizio di pubblico che rispettava più di chiunque altro.
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